Lodi e la sua capacità di accogliere
ERMANNO MERLO
È Lodi che con i suoi profumi, le strade del tempo, i volti, le relazioni, i luoghi, scalda il cuore, avvolge l’esistenza nella sua trasfigurazione più profonda, si fa via via sempre più presente nell’essere. Così come quei Fiumi di Ungaretti E qui meglio mi sono riconosciuto una docile fibra dell’universo.
Così stare a contatto con la vita, possibilità di scambio partecipe, senza fine. Ci rende fragili, insicuri. Sempre legati in modo indissolubile a quella felicità che è un attimo e che è l’attesa di un’intera esistenza.
Così riconoscersi parte dell’altro diventa la possibilità per riallacciare i rapporti con la ragione oggettiva, per ritrovarla al di là di qualsiasi fine strumentale, del dogma ontologico ed empirista.
Quella stessa ragione che permette la critica e che è stata degradata a strumento dall’utilitarismo positivista.
Non ci resta altro da fare se non vivere della poesia e ancora Ungaretti Ho ripassato le epoche della mia vita/questi sono i miei fiumi
Questi sono i miei fiumi e l’epoca della mia vita tanto breve quanto viva di tempo si raccoglie nei frammenti di una parentesi senza fine, vissuta negli angoli dell’esserci, che non smette ancora di interrogare.
Cercare di capire, chiedersi se esista una regola per salvarsi, per sentirsi in modo indissolubile e radicale docili fibre dell’universo.
Lodi è come una poesia, arriva dove deve arrivare, senza sfumature, senza altri mezzi di pensiero.
Con la sua capacità di accogliere sempre, senza un perché.
Sono le contrastanti panacee della nostra esistenza, quelle che ci fanno sentire vivi, che cambiano con il passare inesorabile del tempo.
Ma il cammino tra gli angoli appesi tra il giorno e la notte, tra la luce e il buio, incontrando, tessendo relazioni, diventa la chiave che aiuta ad aprire le porte dell’anima, che questa ‘piccola città conserva segretamente nella sua profonda natura.
Ciao Ermanno
Mi volto sorpreso e penso a chi potrà mai essere nel primo pomeriggio a salutarmi con affetto.
È Mamadou, giovane senegalese, conosciuto in Mensa Caritas.
Alto, occhi neri, profondi, con una barba fitta che circonda il viso in un sorriso senza fine.
Io che alto non sono lo guardo sempre timidamente, ma felice, nell’attimo incerto di aver trovato un amico con cui scambiare due chiacchiere, in modo spontaneo.
Appena il tempo di qualche parola e riparte veloce sulla sua bicicletta attraversando la strada che porta la dormitorio.
È un venerdì sera, di metà novembre.
Il freddo si raccoglie piano nelle ossa e si racchiude nel cappotto nero, lungo fino ai piedi.
Ritorno stanco da una giornata intensa e mi perdo a osservare la luce della luna che si getta sulle vie silenziose di Lodi, accarezza i balconi, i portoni di legno e le poche anime che sono in giro.
Supero la piazza principale e m’incammino verso quella del Broletto, dove siede il palazzo comunale incastonato tra le mura della cattedrale.
Quando sento qualcuno che mi chiama. Mi volto d’improvviso.
È Adama. Un amico del Malì che sta parlando al telefono e intanto si gode il silenzio della piazza, le voci della notte, le immagini simboliste di quella poesia senza fine.
Così iniziano a parlare, di storia, di filosofia, di vita. È sempre un viaggio dell’immaginazione parlare con Adama e il mio sentire si riempie di gioia, si ritrova nel rapporto profondo con una persona che ogni giorno vive una vita nuova, senza paura del cambiamento.
Passano le ore senza accorgermene, come se il tempo fosse diventato mera relatività.
Ed è già notte quando ce ne rendiamo conto.
Così torniamo a casa insieme.
Ancora una volta, senza spiegare perché, inutilmente felici, rimango a Lodi, nella mia città di vento, luogo di vita, che si getta negli angoli del presente, archè principio primo, originario, delle cose, fulcro di relazioni e d’incontro sociale.
Camminando per le strade di Lodi, si finisce per spingersi fino ai campi di grano che circondano il ponte della tangenziale. Adiacente le riva dell’Adda.
Luogo dove molti arrivano con le biciclette e vivono, tra stracci e profumo di tempo, dove ci si abbandona all’addiaccio, nella consapevolezza della fragilità e del possibile.
In primavera sono fioriti i fiori gialli, le colze, Ravison li chiamiamo e colorano le atmosfere del cielo, si raccolgono nei visi e nelle prospettive del sogno.
Festeggio la fine del Ramadan, insieme alla comunità della Guinea di Lodi, proprio lì in mezzo ai campi.
Sono stato invitato da Ramadan, un caro amico e tra una chiacchiera e l’altra li osservo uno per uno i tanti che vanno e vengono dalla strada del ponte.
Per qualche settimana si può stare in dormitorio, ma quando non c’è più tempo bisogna stare fuori e allora il luogo diventa casa, abitazione.
Proprio il giorno prima hanno fatto anche lì la festa del ramadan.
Simbolo dell’incontro e della partecipazione, del messaggio di chi ai margini vive della vita essenziale, raccoglie in se stessa la fragilità e la caducità del vivere.
Un po’ come in quei dipinti dell’espressionista norvegese Munch, che nelle sue prospettive di pennellate dense e impregnate di colore, raccontava dell’ineluttabilità dell’essere uomini.
Il ponte è luogo d’incontro e di relazione, di scambio condiviso, di umanità.
Unisce la vita e la morte, la luce e il buio, le emozioni e la bellezza del riuscire ancora a commuoversi.
Senza chiedersi come.
Lasciando alla parola la possibilità di scavare all’interno dell’anima, di radicarsi senza timore, di farsi viva.
Non è facile, ma sentirsi a casa tra le braccia dell’immagine e dell’anima diventa un dialogo filosofico per costruire il proprio futuro.
Nei volti dei tanti amici, incontrati sul cammino, di quelli che sento vibrare nei giorni coperti di vento dai tigli d’autunno, tra le poesie e le pagine.
Anche se le cose cambiano e il giorno sparisce nelle nuvole dense di pioggia, sapersi vicini ai volti, alle strade, al fiume, alle piazze, ai profumi e ai colori diventa quella parola profonda, che salva, il fiume eterno dell’esistere.