Adagia di Erasmo da Rotterdam

a cura di GIANCARLO ROSSI

Giancarlo Rossi

Vorrei proseguire il dialogo coi lettori di Fisco di prossimità con una sorta di latino di prossimità, partendo da una fonte quasi inesauribile. Sono i non mai abbastanza lodati Adagia di Erasmo da Rotterdam. Con la sua raccolta di oltre quattromila proverbi infatti il sommo umanista fiammingo getta un ponte tra noi e l’antichità. Ci rende familiari e davvero prossimi alla nostra esperienza i condensati di sapienza che il mondo grecolatino ha elaborato in più di mille anni. Mi sono domandato se fosse utile riassumere qui la vita e le opere di Geer Gertz, nato a Rotterdam alla fine degli anni sessanta del XV secolo e morto a Basilea nel 1536, conosciuto col nome di Desiderius Erasmus. Ho preferito lasciare a ciascuno di voi la ricerca in rete o nelle librerie. È talmente grande il Nostro, che gli attaglia benissimo il proverbiale meglio tacere, che dir poco, formulato per primo da Sallustio nel Bellum Jugurthinum su Cartagine (silere melius puto quam parum dicere), ripreso da molti, compreso il Petrarca nelle sua Rime (XVI, 80) Onde meglio è tacer che dirne poco.

Erasmo può apparire un mostro di erudizione -e lo è di sicuro!- ma non perde mai di vista il fine didattico che gli sta a cuore, vuoi sul piano etico, vuoi su quello linguistico. Del resto una delle sue opere più note e deliziose da leggere ancor oggi, sono i Colloquia, apertamente destinati alla conoscenza del latino e della sua prodigiosa varietà espressiva, ma sempre orientati alla formazione morale d’un ideale cittadino della Res Publica Christiana. Vi suggerisco di procurarvi l’edizione einaudiana dei Colloquia e di centellinarla giorno per giorno.

La traduzione non è sempre adeguata e qua e là zoppica, ma tocca ammettere che lo stile ironico e insieme profondo, allusivo e insieme lucidissimo, arguto e acuto di Erasmo è quasi impossibile da trasferire in un’altra lingua. Ci vorrebbe la penna di uno scrittore e poeta come Carlo Emilio Gadda!


Menare per il naso

Ecco un altro modo di dire, anch’esso abbastanza diffuso: “Os sublinere”, ovvero dipingere la faccia, alla lettera. Qualcuno domanderà se non esiste un verbo diretto in latino per ingannare. Ce n’è, ce n’è, ma spesso gli autori si divertono con le metafore. Del resto pure noi usiamo, al posto d’ingannare, il verbo fregare, che proviene dritto dritto dall’atto sessuale. Con l’uso si è come stemperato, perdendo la connotazione originale, mentre è rimasta nel sinonimo “fottere”.

Pensate anche a “buggerare”. Se ne è perso l’etimo, ma risale a una pratica aggressiva e umiliante, che i soldati Bulgari riservavano ai vinti. Ne resta un’eco nel modo di dire edulcorato “metterlo in quel posto”.

Per non lasciarvi però il dubbio che il lessico latino sia scarno, ecco i sinonimi riportati sul vocabolario: fallere, destituere, illudere, deludere, frustrare, decipere, circumvenire, imponere, fraudare, defraudare…

Ma neppure la lingua italiana, degna figlia della latina, scherza: ingannare, beffare, darla a bere, illudere, deludere, disattendere, frustrare, tradire, abbindolare, circuire, far fesso, frodare, gabbare, giocare, infinocchiare, imbrogliare, prendere in giro, truffare, turlupinare, raggirare, uccellare…

Secondo Nonio Marcellino, grammatico del IV secolo, l’espressione nasce dallo scherzo di pitturare la faccia di uno, mentre dorme. Insomma una goliardata ante litteram. Erasmo cita passi di diversi autori -Plauto, Varrone, Sofocle- ma conferma l’etimologia di Nonio con Virgilio, che nella sesta ecloga descrive dei ragazzi che per gioco colorano col succo di more la faccia di Sileno. 

Per restare in ambito facciale noi usiamo l’espressione “menare per il naso”, che fa da contrappunto a “ho forse l’anello al naso?”, entrambe nate verisimilmente dalla consuetudine di mettere un anello al naso dei buoi per poterli condurre agevolmente al pascolo o alla stalla. Ma passiamo ad altri proverbi, estratti dalla miniera erasmiana.


Parole, parole, parole

Continuiamo coi modi di dire dei Romani, che si riferiscono all’inganno. Eccone uno assai diffuso presso gli autori antichi, tra i quali Erasmo indica Terenzio, Ovidio, Persio, ma avrebbe potuto chissà quanti, come chiosa lui stesso.

Per coglierne meglio il senso di un’espressione un po’ sibillina -letteralmente dare, offrire parole- tocca riferirci ad altre espressioni simili: facta non verba, acta non fabulae, ovvero fatti non parole, azioni non favole; ma, se preferite, ci soccorre Mina con una vecchia canzone del secolo scorso, il cui ritornello era “Parole, parole, parole”. I più anziani di noi ricorderanno che la cantava in duetto con Alberto Lupo, che lei accusava di proferire solo parole vane.

Erasmo aggiunge, come fa spesso, un’allusione amara e insieme ironica ai suoi tempi: “Direi che questo proverbio acquista in grazia, quando lo si usi fuori dalla normale conversazione e lo si riferisca alla frode e all’impostura, che si realizzano anche senza il belletto delle parole. Per esempio come quando uno dice che il mondo inganna (dat verba) chi crede nel mondo, l’alchimia (la chiamano scienza!) inganna chi la studia, e inganna se stesso chi promette l’impossibile”. Che dovremmo dire noi, sommersi di parole da politici, pubblicitari, propalatori di falsità, sovvertitori della storia, gazzettieri, complottisti, teorici dell’arrivo degli alieni e nuovi alchimisti delle scie chimiche?


Truccare

Anche negli Adagia dunque, mentre raccoglie i sedimenti della sapienza antica, Erasmo ci informa sulla ricchezza della lingua latina, sulla cosiddetta “copia dicendi”, che lui ritiene essenziale per la formazione di un umanista. Prendiamo come esempio il concetto d’inganno, di truffa. Ci propone tre espressioni metaforiche, vale a dire “Fucum facere”, “Dare verba” e “Os sublinere”, modi coloriti e abbastanza diffusi per dire ingannare. Vediamoli uno per uno. 

Greci e Romani chiamavano fuco un’alga marina, col cui succo si tingevano le stoffe di lana, un po’ come usavano il murice per la pregiatissima porpora. Quindi propriamente “fucum facere” significa dare un colore, tingere, truccare. E molti esempi trae Erasmo dagli autori sia in senso concreto, sia sotto forma di metafora: da Orazio, che accenna alla lana tinta col fuco, a Plauto, laddove nella Mostellaria la schiava Scafa si riferisce alle vecchie che nascondono col trucco i difetti fisici (vitia corporis fuco occulunt).

Ma vale la pena riportare per esteso il passo: Scafa così ammaestra la meretrice Filemazio: “La donna sa di buono, se non ha odore… invece queste vecchiette sdentate, che nascondono i difetti fisici col trucco, quando il sudore si mischia coi profumi, puzzano immediatamente, come quando il cuoco mescola troppi sughi…”. Sembra attagliarsi ad alcune donne e qualche uomo dei nostri giorni, che sono talmente impregnati di deodoranti o di profumi, da lasciare dietro di sé una densa scia olfattiva, spesso mescidata a un olezzo di corpo poco lavato.

Ma l’espressione “fucum facere”, come rammenta Erasmo, è usatissima nella forma metaforica di mascheratura. Del resto un chimico americano agli inizi del secolo scorso chiamò mascàra (dallo spagnolo màscara o forse dal nostro maschera) un impiastro di cera e pigmenti, buono per ispessire e colorare le ciglia.

Ecco dunque che fucus equivale a trucco che nasconde o altera il vero aspetto d’una persona, diventa artificio per apparire e nascondere la propria natura, adatto a colui che “personam malit quam faciem, idest videri malit quam esse”(preferisce la maschera al volto, cioè preferisca apparire piuttosto che essere), come dice Seneca, citato da Erasmo.

È un antico luogo comune il contrasto tra apparire ed essere, ma mai come in questi nostri tempi ha assunto un significato patologico ed è causa d’infelicità profonda presso le giovani generazioni, che pensano di non esistere, se non sono visibili nei mezzi di comunicazione di massa o nelle reti sociali. Quando poi il disagio di non esistere raggiunge picchi patologici, come ci insegnano recenti tragici episodi, non esitano a uccidere, purché si parli di loro.


INGANNARE

Gli adagia sulla menzogna, l’inganno e la calunnia, sono così implicitamente connessi con la comunicazione di massa odierna e con la pletora d’impostori che blatera ovunque, da tornarci utili.

Vale a dire, tradotto liberamente Bisogna stare attenti a chi ti ha già fregato una volta


Erasmo lo ricava da un passo del nono libro dell’Iliade, che riporta in originale e traduce ad verbum, conservando la metrica. Ettore Romagnoli traduce secco così:

Mi ha già imbrogliato e offeso una volta. Mai più in futuro m’ingannerà con le sue parole.
Adesso Basta! Che vada alla malora.


Vincenzo Monti assai aulicamente e ampliando

Che gli basti l’aver tanto potuto / Sola una volta, e che mal fonda in vane / Ciance la speme d’un secondo inganno. / Digli che senza più turbarmi corra / Alla ruina…

È Achille che parla, ancora in preda all’ira funesta verso Agamennone, replicando all’ambasceria di Ulisse, che lo pregava di tornare a combattere a fianco degli altri greci.


Non vorrei sembrare maramaldo, ma mi è davvero spontaneo collegare quest’adagio a recentissimi fatti politici. Senza entrare troppo in merito, vediamo i dirigenti d’un partito pronti a riabbracciare un transfuga, che torna spavaldo, dettando le sue condizioni, mentre gran parte degli iscritti a quel partito ricorda d’essere già stata ingannata una volta. Del resto al personaggio in questione alcuni collegavano la famosa favola di Esopo sullo scorpione e la rana. Uno scorpione implora una rana di traghettarlo sul dorso dall’altra parte d’un fiume; la rana acconsente, lo scorpione la punge a metà del tragitto. La rana morendo protesta: Perché mi fai questo? Pure tu morirai! Risponde lo scorpione: Che ci vuoi fare? È la mia natura!