I problemi della riforma GOL
LAVORO

I problemi della riforma GOL

MARCO LEONARDI

Il progetto del PNRR sul mercato del lavoro si chiama Gol (Garanzia di Occupabilità dei lavoratori). È stato pensato nel 2020. Il mercato del lavoro era in contrazione. Si stava sperimentando in pandemia un unicum mondiale del blocco per legge dei licenziamenti. C’era il timore di licenziamenti di massa. Per quella ragione e non senza polemiche, i soldi del PNRR furono messi su una riforma strutturale con obiettivi relativamente semplici. Puntavano sulla quantità di disoccupati presi in carico dai centri dell’impiego. Sì, GOL è considerata una riforma strutturale del mercato del lavoro.

Oggi che invece fortunatamente il mercato del lavoro va bene, servirebbe esattamente il contrario. Bisognerebbe puntare sulla qualità dei posti lavoro invece che sulla semplice quantità. Servirebbe indirizzare i disoccupati verso una formazione specifica che affronti il problema del “mismatch” tra le competenze dei lavoratori e quelle specifiche richieste nei nuovi posti di lavoro.

L’occasione giusta per cambiare il progetto GOL era la revisione del PNRR. Il ministro Fitto ha rivisto una parte importante del PNRR cancellando i progetti dei comuni. Ha messo un miliardo in più su GOL senza cambiare il progetto di una virgola, un’occasione persa.

La riforma GOL favorisce l’aumento di 0,9% del PIL

Non è una questione per soli esperti del mercato del lavoro. Di tutte le riforme PNRR, l’unica che ha 5,5 miliardi di euro da spendere è proprio la riforma GOL. Tant’è vero che il nuovo Piano Strutturale di Bilancio gli attribuisce nel prossimo anno ben 0.9% di crescita di PIL. Tutte le altre riforme – la concorrenza, gli appalti e la trasparenza, la giustizia – contano lo 0.1% ciascuna. 

GOL prevede la presa in carico di 3 milioni disoccupati. 800 mila sono da mettere in formazione e alcuni di questi in formazione digitale. La prima parte dei target è stata superata, ma solo apparentemente, perché prendere in carico amministrativamente la gente non è stato difficile. Già da subito il target della formazione sta affrontando ostacoli formidabili.

Per essere annoverato tra il target UE, un disoccupato deve avere una certificazione delle competenze. Deve avere frequentato un corso di formazione con attestato finale, oppure deve avere effettivamente trovato un’occupazione, oppure almeno deve aver ricevuto un servizio di orientamento e di accompagnamento al lavoro. Sarebbe un peccato se ci si accontentasse di un accompagnamento al lavoro puramente formale ed inefficace. Questo solo per raggiungere il target.

Gli ex redditizi e il fallimento della formazione

Il dubbio non è peregrino. Sul sottoinsieme dei più bisognosi, cioè quelli che venivano dal reddito di cittadinanza ed erano considerati occupabili semplicemente perché in età da lavoro senza carichi familiari, il governo ha studiato un sistema di formazione. Sembra costruito apposta per non funzionare. Meno di 90mila persone, tra mezzo milione di persone che sono potenzialmente occupabili, hanno fatto domanda per il sistema di formazione da € 300 al mese per pochi mesi. Solo 48mila sono gli effettivi beneficiari. 

Il fallimento della parte che riguarda gli ex redditisti di cittadinanza si può spiegare con un motivo ideologico. Il fallimento della formazione dei disoccupati “ordinari” è dovuta al fatto che il governo non se n’è mai davvero occupato. 

I limiti dei centri dell’impiego

I problemi della formazione dei disoccupati a cui mettere mano al più presto sono due: un problema di domanda e un problema di offerta. Il problema di domanda è che molte persone, anche se formalmente disponibili al lavoro e in cerca di occupazione, in realtà si rifiutano di fare qualunque tipo di formazione. Le ragioni possono essere di diverso tipo. Non sono davvero interessate a trovare un posto di lavoro o non hanno le informazioni corrette riguardo ai benefici della formazione. In entrambi i casi si può agire per ridurre il problema.

Se una persona sta prendendo il sussidio di disoccupazione tendenzialmente non vorrà fare la formazione. La frequenza ai corsi condiziona il sussidio. Con due assenze in un mese lo si perde. Per converso, per evidenziare i vantaggi dello sviluppo di competenze i centri dell’impiego dovrebbero fare un lavoro di informazione e di profilazione con più attenzione. Dovrebbero dedicare più tempo, quando invece ora devono fare numeri e non qualità.

Una soluzione per salvare i conti pubblici

È anche un problema di offerta. Non si può destinare denaro pubblico per formare una persona che sta già in azienda (su cui quindi l’azienda ha interesse a investire). Sarebbe un “aiuto di Stato”. Si può invece formarla per poi essere assunta. Il problema è che spesso i numeri delle richieste delle aziende sono troppo piccoli per formare le classi. Per raggiungere i numeri minimi, chi offre formazione organizza percorsi molto generici e poco utili. 

Il momento è assai propizio per fare qualcosa di utile con 5,5 miliardi di euro. Se proprio non lo volete fare per risolvere un problema strutturale dell’Italia fatelo almeno per i conti pubblici. Senza lo 0,9% di PIL attribuito alla riforma GOL i conti pubblici non vanno lontano.


Pubblicato su Il Foglio il 29.10.24