La comunicazione come giusto mezzo
CITTÀ E CITTADINI

La comunicazione come giusto mezzo

MARCO SECHI

La nostra democrazia, le cui regole sono scritte nella Costituzione Italiana, sembra ormai anacronistica. Non è aggiornata alle evoluzioni della nostra società. Dei tentativi di riforma della Costituzione sono stati proposti in svariate occasioni. Si sono spesso risolti in un nulla di fatto o in modifiche che hanno avuto esiti molto problematici. Hanno aperto conflitti interpretativi sulle competenze amministrative delle istituzioni. È il caso della riforma del Titolo V e l’introduzione di una maggiore autonomia per i governi regionali.

La democrazia non è mai stata messa in discussione come in questi tempi, anche per quanto riguarda i principi ritenuti fondanti e costituenti, senza i quali probabilmente il concetto di democrazia stessa verrebbe meno. Un esempio concreto è il diritto alla libertà di espressione, in cui rientra anche la fattispecie della manifestazione del dissenso. Viene inteso nelle maniere più diverse e antitetiche. Il concetto di democrazia come descritto e regolamentato nella Costituzione Italiana prevede il diritto di sciopero, il diritto a esprimere liberamente il proprio pensiero, la libertà di stampa. La società e la politica odierna sembrano sempre più insofferenti nei confronti di questi diritti capitali per la sussistenza delle democrazie.

Il diritto alla libertà di espressione

L’esempio del diritto alla libertà di espressione non è casuale. Ci consente di riflettere su quanto esso sia importante per poter garantire ai cittadini la possibilità di contribuire alle decisioni prese dalla maggioranza parlamentare e dal governo. Sono le due emanazioni principali dei poteri dello Stato moderno liberale teorizzato da Montesquieu, rispettivamente depositarie del potere legislativo e del potere esecutivo. La limitazione della libertà di espressione, però, non è solo una questione di parti politiche o di azioni legislative che vanno a erodere questa facoltà. In questa riflessione vorrei introdurre la questione del potere dei nuovi mezzi di comunicazione, che l’innovazione tecnologica più recente ci ha dato in dono.

L’utilizzo degli stessi da parte del potere politico non è una novità. Il problema dell’uso del linguaggio come strumento di propaganda del potere è antico quanto la democrazia. Basti pensare alla retorica dei Sofisti nell’antica Grecia. Inoltre, l’innovazione degli strumenti di comunicazione ha sempre portato a delle svolte epocali e a dei periodi storici di rivoluzione. È stato così per l’invenzione della stampa, della radio, della televisione. Arriviamo poi ai giorni nostri con l’avvento di Internet, i social network e l’intelligenza artificiale.

Lo scopo essenziale del linguaggio

Vorrei affrontare la questione a partire dal tentativo riuscito di Allison Scott-Baumann, filosofa inglese e professoressa della Scuola di Studi Orientali e Africani (SOAS) di Londra, di creare un laboratorio di idee raccolte dal basso da trasmettere alle massime rappresentanze del Parlamento inglese. Il progetto, nominato con l’acronimo ICOP (Influencing the Corridors Of Power, letteralmente “Influenzando i Corridoi del Potere”) ha infatti portato alla sottomissione di alcune proposte legislative (A. Scott-Baumann, Paul Ricœur. Empowering education, politics and society. Springer, London, 2023).

Il discorso di Baumann parte dal linguaggio. Il linguaggio infatti, per natura, come vorrebbero intellettuali del calibro di Jurgen Habermas e Paul Ricœur, ha uno scopo essenziale. È quello di comunicare. Già nell’etimologia della parola com-unicare è insita l’esigenza di unificare, consolidare, federare, unire due o più entità. Sono rappresentate nel prefisso latino “cum” che indica la vicinanza tra individualità eterogenee e la radice “unicum” che significa per l’appunto rendere unico. I due filosofi, avvalendosi della tradizione filosofica analitica americana, individuano nel linguaggio lo strumento di mediazione per eccellenza. È la chiave per la creazione, per l’appunto, di una “comunità”.

La scuola è il luogo dove si apprende il linguaggio

Quale, se non la scuola, è il luogo in cui si apprende il linguaggio e quindi lo “stare in comunità”? La scuola, infatti, è il luogo in cui un individuo – almeno nella società occidentale – sperimenta la vita sociale al di fuori della famiglia per la prima volta nella sua vita. È, inoltre, il luogo in cui i ragazzi spendono una buona parte del loro tempo.

Ciononostante, la scuola sembra diventata da trent’anni a questa parte l’ultima delle priorità. È l’ultima delle preoccupazioni, non solo da parte dei governi, ma anche dell’opinione pubblica. Piero Calamandrei, eletto nell’Assemblea Costituente, dava alla scuola la dignità di organo costituzionale, al pari del Parlamento e della Magistratura. Verrebbe da chiedersi dunque, come mai la reputazione della scuola italiana sia crollata così in basso.

Possiamo osservare, tuttavia, in generale, come oggi una certa propaganda politica tenda a delegittimare qualunque istituzione ideata con l’esplicita funzione costituzionale di limitare o contenere il potere dell’esecutivo. In altra maniera sarebbe così assoluto. La scuola dovrebbe avere proprio la funzione di creare nel cittadino la capacità di interrogare il potere e valutare, soppesare la bontà delle sue scelte. Il cittadino, nella sua funzione più piena per la democrazia, ha il diritto e il dovere di esercitare la capacità critica. Il termine deriva proprio dal greco krisis, la cui traduzione significa “decidere, scegliere”. Il cittadino è chiamato a scegliere. In questo modo può esercitare il suo potere di sovranità, come indica la Costituzione nel primo articolo.

La facilità con cui argomenti così eterogenei trovino una sintesi è sorprendente. Altresì non è difficile comprendere come parte della problematica sia individuabile nell’incapacità della politica di riuscire a mediare. Non utilizza il linguaggio nella sua funzione più propria, ossia come strumento per creare comunità. 

Free speech e politically correct

Infatti, oggi la comunicazione politica si contrappone perlopiù in due polarità opposte. Da una parte c’è la cultura del “politicamente corretto”. È quella per cui vi sono dei tabù impronunciabili di cui non si può discutere. Dall’altra c’è la cultura della libertà di espressione senza condizioni, che gli anglosassoni chiamano free speech. Quest’ultima sembra tanto cara a tutti coloro che si sentono rappresentati dalla nuova Destra mondiale. Questa ritiene di non avere alcun limite nell’esercizio del potere di cui è investita. Si sente assolta da qualunque condizionamento o norma di buon senso.

La prima del politically correct sembra attribuibile invece alla controparte, la Sinistra. Molto spesso è tacciata di voler restringere le libertà, limitando le notizie che, per esempio, diffondono informazioni false. È evidente ormai, che il dibattito politico nelle democrazie occidentali stia andando verso una polarizzazione estrema, di una parte e dell’altra. Si creano conflitti aspri e una esacerbazione dei toni. Il problema starebbe proprio nel linguaggio e nel suo uso strumentale ai fini di propaganda, se si seguono le argomentazioni delle considerazioni fatte fino a qui.

Il linguaggio tra pubblicità e marketing

Il linguaggio delle pubblicità, del marketing, è diretto ad accattivare il pubblico. Fa leva sui suoi bisogni primari. Attribuisce alla parola un significato non proprio. Nasconde invece il suo presupposto naturale. È quello del com-unicare, creare intesa e unione tra i due o più interlocutori. Un linguaggio ingannevole che nasconde il suo reale intento, infatti, in favore della necessità puramente strumentale di dover irretire l’interlocutore. Non può che portare a fraintendimenti, a divisioni. I messaggi politici dei mezzi di comunicazione sono costantemente caratterizzati dal linguaggio manipolatorio. L’unico scopo è persuadere il destinatario.

L’effetto risultante è quello, infatti, di affievolire l’incertezza. Lenisce il turbamento causato dal dubbio, fondamentale per effettuare una scelta consapevole. Si anestetizza quindi la fonte più feconda per il corretto sviluppo del processo democratico. Tale effetto soddisfa il bisogno psicologico di conferme dei propri sostenitori. Rafforza le loro convinzioni. Consolida i pregiudizi verso la controparte. Quello che si chiama, appunto, bias di conferma, è stato dimostrato dallo psicologo americano Wason. Ha compiuto degli esperimenti semplici quanto divertenti e sorprendenti nei loro risultati.

La polarizzazione dei social network

Le discussioni sui social network sono il sintomo più evidente di questo processo. Due persone che discutono su qualsiasi argomento arriveranno ad arroccarsi su posizioni sempre più distanti e divergenti. È alquanto evidente anche la polarizzazione delle parti politiche. Sono sempre più posizionate agli estremi, per cui è difficile raggiungere una mediazione.

In un recente convegno organizzato dal principale sindacato d’Italia, la CGIL, l’intervento del professor Alessandro Barbero sottolineava come il conflitto fosse fisiologico per le società. Ancor di più, il conflitto sarebbe opportuno in presenza di situazioni di svantaggio o di ingiustizia. Occorre tuttavia declinare il significato che vogliamo attribuire al conflitto. Per conflitto, infatti, non si intende quello espresso con il confronto fisico o violento, ma quello insito nella capacità del popolo di esercitare il proprio potere di scelta, quindi in funzione di limitazione del potere esercitato dagli organi dello Stato.

Il potere delle parole sulla realtà esistente

Il potere di libertà di espressione si esercita proprio in questo senso. La capacità di mediazione del linguaggio sta nel potere delle parole di esercitare un cambiamento nella realtà esistente. Già Hannah Arendt citava la disobbedienza civile come strumento di espressione della volontà politica delle minoranze e delle comunità, in funzione di esercitare la pluralità democratica e rappresentare queste minoranze in Parlamento. La soluzione delle “Communities of Inquiry” individuate dalla Baumann, si inserisce proprio in questo processo di elaborazione e costruzione del potere popolare, di cui il popolo è investito anche dal primo articolo della Costituzione Italiana.

Lo stesso Paul Ricœur nell’opera profetica “Il Conflitto delle Interpretazioni” auspica l’abbandono dei pregiudizi, in favore della polisemia semantica delle parole. “Ogni parola possiede potenzialmente molti significati, alcuni dei quali potrebbero risultare contraddittori: se insistessimo su un singolo significato, indeboliremmo la nostra capacità di comunicare”. Immaginiamo, infatti, una situazione alle estreme conseguenze in cui un interlocutore utilizzi un linguaggio ostile. Potremmo facilmente neutralizzarlo attraverso la rielaborazione e la parafrasi dello stesso. Traduciamo l’insulto o la violenza verbale con parole diverse che abbiano sfumature di significato verosimili, ma prive del loro potenziale bellicoso originario.

Il potenziale metaforico del linguaggio

In questo modo lo stratagemma della riproducibilità e della ripetizione rendono tale linguaggio innocuo. Disarmano il suo intento omertoso di diventare tabù. Lo sottraggono al controllo di chi vuole offendere. Questo esempio circostanziato ovviamente non pretende di essere applicabile a tutti i casi particolari di dibattito, di discussione. Vorrebbe spiegare nel concreto il potere di mediazione del linguaggio, che elabora il conflitto attraverso il suo stesso potenziale metaforico. L’auspicio è dunque quello di non abbandonare i luoghi di confronto, bensì cercare di renderli affini e confortevoli al nostro abitare.

D’altra parte, questo potere del linguaggio consente di creare nuovi significati. Il nucleo naturale del linguaggio ha il potere di creare unione. Si valorizza proprio nella sua funzione di essere disponibile alla comprensione dell’interlocutore, per far sì che lui lo declini nelle sue svariate sfumature di significato, nella prospettiva di scambio di un’ulteriore creazione feconda in un processo infinitamente ripetibile.

La polarizzazione del linguaggio di propaganda, tipico dei social network, lo rende invece un’arma da battaglia. È pronta a essere brandita per difendere le proprie convinzioni, ma lo priva del potenziale più autentico e genuino della comunicazione. Ha proprio la funzione opposta a quella che abbiamo descritto. Limita la capacità di immaginare altri mondi e di arricchire il senso delle parole che utilizziamo, usate come mero strumento di proselitismo e di propaganda. Annullano l’interlocutore. Fanno di esso una controparte, un nemico da conquistare e convincere. Inibiscono la sua capacità di poter contribuire alla creazione di una realtà nuova.

Tra propaganda e politica

Molto spesso si è parlato, infatti, della miopia della politica dei nostri giorni. Per presunti vantaggi elettorali immediati, evita di fare discorsi di ampio respiro, lungimiranti. Abdica al suo ruolo di immaginare un futuro diverso. Ancor più grave se questa ignavia colpisce i cosiddetti partiti progressisti. Non c’è progresso in una politica che si preclude la possibilità di intervenire sulla realtà e cambiarla.

È perciò quanto mai opportuno riuscire a distinguere il piano della propaganda da quello della politica che, sebbene ritenga indispensabile lo strumento della persuasione e della pubblicità per trasmettere i suoi messaggi, deve ineluttabilmente agire sul piano politico. Deve creare degli spazi di comunicazione autentica, delle comunità in cui si possa discutere delle questioni secondo le regole della democrazia, senza le prevaricazioni del linguaggio ostile o mercantilistico.