La storia già scritta dei dazi
MARCO LEONARDI – LEONZIO RIZZO
Trump ha rilanciato i dazi generalizzati senza distinzione di paese. L’obiettivo dichiarato è quello di riportare la produzione negli Stati Uniti. Ma quali effetti possiamo attenderci? La storia dei dazi è già stata scritta e i risultati non sono incoraggianti.
Il primo capitolo di questa storia inizia negli anni 2000. Per molti anni durante la globalizzazione i dazi generalizzati erano vietati dall’organizzazione generale del commercio, il WTO. Alcuni prodotti specifici venivano protetti con non-tariff barriers, standard tecnici tuttora molto frequenti in agricoltura, oppure con dazi ad hoc antidumping contro i prodotti esportati sotto costo.
Un articolo scientifico famoso (American Economic Review di Flaaen, Hortaçsu e Tintelnot) racconta la storia dei dazi antidumping sulle lavatrici importate dalla Corea del Sud e dal Messico nel 2012. I produttori risposero prontamente, spostando la produzione prima in Cina, poi in Vietnam. Si chiama country hopping: nessun aumento di prezzi, nessuna grande rivoluzione. Ma nel 2018, con il Trump I e l’avvento della “guerra dei dazi”, lo scenario cambiò.
Le conseguenze dei dazi del 2018
Trump impose dazi su oltre 280 miliardi di dollari di merci. Colpì non solo la Cina, ma anche l’Unione Europea, il Canada e altri partner. Stavolta, non ci fu scampo. I prezzi delle lavatrici aumentarono del 12%, anche quelli delle lavatrici non soggette ai dazi. I produttori approfittarono della protezione per alzare i prezzi. Il costo? Oltre 1,5 miliardi di dollari l’anno in più per i consumatori, per riportare in America 1.800 posti di lavoro. Più di 800.000 dollari per ogni posto di lavoro rientrato. Immaginando generosamente un salario di 50.000 dollari all’anno, ci vorrebbero 16 anni perché l’incremento della massa salariale possa ammortizzare il costo pagato dai consumatori.
L’esperienza dei dazi del 2018 è stata analizzata da diversi studi. Confermano che quasi l’intero costo dei dazi è ricaduto su famiglie e imprese americane, non sugli esportatori esteri. I prezzi dei beni colpiti sono saliti quasi nella stessa misura dei dazi stessi. Le quantità importate sono crollate, mentre le varietà disponibili per i consumatori si sono ridotte. Un doppio colpo: meno scelta, a prezzi più alti. Dal punto di vista del benessere collettivo, si stima una perdita mensile di 1,4 miliardi di dollari solo in termini di efficienza economica. Sommando tutto, nel solo 2018 si sono persi 8 miliardi di dollari. Altri 15 miliardi sono stati trasferiti dai consumatori al governo sotto forma di dazi.
La lezione del country hopping
Il Trump II del 2025 ha imparato la lezione del country hopping. Quando i dazi colpiscono solo alcuni paesi, le aziende spostano semplicemente la produzione altrove, evitando le tariffe. Ora i dazi sono generalizzati, verso tutti. L’idea è chiara, obbligare le imprese a riportare la produzione negli USA.
Ma tornano le domande del 2018. Quanto costa ogni posto di lavoro “riportato a casa”? Se i dati passati sono un’indicazione, il conto può superare di molto i 500.000 dollari per occupato. E questo senza contare gli investimenti pubblici a sostegno delle aziende che perdono, le tensioni diplomatiche, e il contraccolpo sui prezzi al consumo. Trump I spese 28 miliardi di dollari per le sole aziende agricole.
Per funzionare davvero – cioè, per innescare una riallocazione su larga scala – i dazi devono essere molto alti e, soprattutto, credibilmente permanenti. Solo se credono che i dazi dureranno anni, e che saranno elevati e generalizzati, le aziende prenderanno decisioni di rilocalizzazione.
Ma rendere permanenti i dazi significa accettare un prezzo: una struttura dei prezzi interni sistematicamente più alta, una riduzione della varietà di beni e una minore competitività sul piano internazionale. In pratica, è una tassa sul consumo.
Quale risposta europea al nuovo protezionismo
Il protezionismo del 2025 è più ampio, più aggressivo e più costoso di quello passato ma la lezione è chiara. Riportare un lavoro negli USA può costare decine di volte lo stipendio annuale dello stesso lavoratore delocalizzato. A pagarne il prezzo, ancora una volta, saranno i consumatori americani, a meno che le imprese americane non siano disposte ad abbassare il proprio profitto o i sindacati americani a cedere sul costo del lavoro. Infatti, dopo che nel breve periodo i prezzi saranno aumentati a causa delle tariffe, sarà difficile che diminuiscano, visto che non ci sarà neanche la pressione della concorrenza esterna.
Tutto questo è una consolazione. Per l’Europa non sarà affatto facile rispondere ai dazi. Bisognerà trovare metodi creativi per colpire i servizi finanziari e le tecnologie digitali, anche svalutare l’euro in pratica non è facile perché la BCE non ha competenza esplicita sulla politica di cambio mentre paradossalmente il Tesoro americano ce l’ha. L’unica regola aurea per ora sembra quella di non cedere alla tentazione di dividere l’UE, senza la quale i poteri nazionali sono nulli.
Pubblicato su Il Foglio il 09.04.25