Cresciuto al Giambellino
INTORNO A NOI

Cresciuto al Giambellino

MAURO BAZZINI

Cresciuto al Giambellino e tornare con la memoria agli anni ’70 è come fare un viaggio in bianco e nero. Le case popolari, soprattutto quelle della periferia più estrema, piazza Tirana, via Segneri, via Inganni; immerse nella nebbia e non ancora consegnate al degrado. Case dignitose di operai delle vecchie fabbriche ormai scomparse, di pensionati spesso “di guerra”; di immigrati dal sud, venuti a cercare lavoro e arruolati ben presto nuovi milanesi d’adozione, ma anche di “vecchi” milanesi, custodi di un dialetto che, come le fabbriche, oggi non esiste praticamente più. 

Periferia della periferia: già allora, benché di stranieri non se ne vedessero ancora, gli stessi abitanti della zona, ma appena più prossimi al centro, verso piazza Napoli, chiamavano quello scampolo di quartiere, al confine con Corsico e Buccinasco, “la casbah”, con buona dose di pregiudizio.

Da un certo punto di vista il pregiudizio poteva essere fondato. Era una zona dura quella parte del “Giambella”, violenta, e la gioventù cresceva tra l’eco delle gesta della mala e lo spettro scuro dell’eroina che cominciava ad aggirarsi per le strette e nebbiose vene del quartiere. Era la zona della bisca di “Francis” Turatello nei pressi della Stazione di San Cristoforo, della casa di Vallanzasca in via degli Apuli (abitazione della “zia” Rosa, la prima moglie del padre), nella quale il futuro “bel Renè” aveva abitato dopo le sue prime malefatte giovanili.

A pochi metri, la fontana di via Odazio assisteva al triste pellegrinaggio degli eroinomani: le facce scavate, gli sguardi assenti, braccia e piedi martoriati; una drammatica compagine di zombies, ostaggio di spietati commercianti di morte. La trattoria “La Bersagliera”, sempre in piazza Tirana, avrebbe visto le prime clandestine riunioni tra Renato Curcio, Mara Cagol e la famiglia Morlacchi, germoglio delle nascenti Brigate Rosse

La strage del Lorenteggio”

Del Giambellino “deviato” ho qualche diretto ricordo, ma due tra tutti mi sono rimasti nella mente, a distanza di tanti anni. Il primo, riguarda un fatto avvenuto proprio sul tragitto che quotidianamente compivo di ritorno da scuola: la famigerata “strage del Lorenteggio”

Il 18 novembre 1981, in una rientranza di via Lorenteggio, all’incrocio con via delle Rose, davanti all’ingresso di un bar, cadono vittime di una spietata esecuzione quattro persone. Sono i malavitosi Walter Pagani, Oronzo Rovieri, Paolo Leanti. Muore anche un innocente benzinaio senza alcun legame con la mala, ucciso per errore, Luigi Cappellini. La strage era stata ordinata da Angelo Epaminonda “Il Tebano”, per vendicarsi di una rapina subita nella bisca di via Panizza. Da subito girarono alcune notizie a riguardo.

Si disse che i quattro cadaveri erano stati ritrovati ognuno con una carta da gioco in bocca, forse quattro assi. Si disse anche che avrebbe dovuto esserci una quinta vittima, Michele Rovieri, fratello di Oronzo, che si sarebbe salvato fuggendo da una finestra posteriore del bar. “Michelino” Rovieri era personaggio noto tra noi studenti delle scuole di via dei Narcisi, perché era solito, durante le ore di lezione, scorrazzare su e giù per la breve via con un Ape car, quasi sempre in bilico su due ruote.

Una storia personale

Il secondo ricordo è più personale, più vicino e doloroso, e riguarda un caro amico d’infanzia, compagno di scuola elementare e di squadra di calcio; un ragazzo vispo, solare, figlio di una famiglia per bene, immigrati dal sud, onesti lavoratori.

Qualche anno più tardi, appena dopo il liceo, mi trovavo in attesa in una panetteria di Largo dei Gelsomini, e sentii alle spalle una voce, che con pronuncia appena biascicata, si rivolgeva ai presenti: “avete per favore qualche moneta? Sono rimasto a piedi con la macchina e dovrei fare benzina…”.

Mi voltai e incrociammo lo sguardo, era lui, Luciano (nome di fantasia…), con una tanica di plastica in mano, le guance scavate, i denti mezzi marci e quello sguardo languido e malato che avevo imparato a riconoscere. 

Mi riconobbe subito: “Mauro, ciao … mi puoi dare una mano? Sono rimasto a piedi…”

Uscimmo, presi dalla tasca una banconota da duemila lire e gliela diedi, cercando di nascondere l’imbarazzo; entrambi con lo sguardo ipocrita di chi condivide la messinscena.

“Poi passo da casa e te li restituisco…è che adesso sono fermo con l’auto…abiti sempre là?”

“Non preoccuparti Luciano…la prossima volta…senza fretta.”

La triste fine di tante storie al Giambellino

La settimana dopo ero a casa, stavo cenando con la mia famiglia e sentimmo suonare il citofono: era Luciano. I miei genitori lo conoscevano bene, ma probabilmente ne serbavano ancora il ricordo del compagno di classe delle scuole elementari. Preferii che non ne avessero un’immagine diversa e scelsi di non farlo salire, quindi scesi in strada per incontrarlo da solo.

“Ciao Mauro, scusami … mi hanno rubato il portafogli e stasera dovevo uscire con la tipa. Non è che avresti diecimila lire da prestarmi? Giuro che domani passo e te le restituisco … guarda mi dispiace davvero disturbarti, ma ero qui vicino e mi sei venuto in mente solo tu …”

“Luciano, ho queste in tasca – tirai fuori cinquemila lire – io non lavoro e i miei, lo sai, non sono ricchi. È l’ultima volta Luciano, l’ultima … non chiedermi più soldi e non venire più a casa dei miei …”

“No scusa, ma ti giuro … te li rendo, non preoccuparti … è che non volevo fare figure di merda con la tipa …”

“Luciano – dissi risoluto –  non venire più a chiedermi soldi … e, soprattutto, non venire qui a casa dei miei … discorso chiuso”. Combattuto tra rimorso, rabbia e compassione, la mia reazione era stata piuttosto dura. 

“Ok, ok … non t’incazzare … siamo amici, no?” – me lo diceva mentre già si stava allontanando; i pensieri rivolti ad altro, le spalle rivolte a me.

“Certo … amici …” – rimasi a guardarlo andar via, a piedi, nella immancabile nebbia della sera.

Non lo vidi più e non seppi più nulla di lui. Seppi invece, anni dopo, di un altro comune amico. Era compagno di banco di Luciano, morto di overdose, e di altri ragazzi colpiti da un’altra sciagurata sventura, malefica figlia dell’eroina, l’AIDS.

Il Giambellino che rimane nel cuore

Il Giambellino di quegli anni; eppure, come tutti i luoghi d’infanzia, fossero anche i più malfamati, rimane nel cuore. Ci sono amici di allora che non l’hanno mai abbandonato. Ho ricordi romantici e lievi del quartiere, soprattutto quelli e nonostante tutto. Frontiera controversa, dai colori incerti; padre crudele e amorevole, che può dare e togliere molto, anche tutto. A me ha dato la chiave per sopravvivere alle sue brutture, per sfuggire alle sue trappole: mi ha dato la musica.

Senza la musica, la vita sarebbe un errore – diceva Nietzsche. Infatti … senza la musica anche il Giambellino sarebbe stato per me un possibile errore, ma questa è un’altra storia.