Il diritto alla difesa
ILARIA RAMONI • AVVOCATA E aMMINISTRATrice GIUDIZIARIa
Le recenti dichiarazioni del papà di Giulia Cecchettin ci pongono davanti a un tema che scava nelle nostre coscienze di essere umani e di giuristi. Comunque la si pensi. Il diritto alla difesa è sacro e inviolabile. È un pilastro del nostro ordinamento che non possiamo assolutamente accettare che venga compresso. Soprattutto là dove i crimini contestati sono tra i più efferati. Ne soffrirebbe la giustizia stessa, l’autorevolezza della sentenza che, certamente, non risente e non deve risentire dell’emotività del momento.
Al contempo, però, sarebbe necessario mostrare sempre una certa eleganza nelle aule di giustizia. Eleganza che dovrebbe essere agita, e pretesa, da tutte le parti coinvolte. Eleganza istituzionale non come limite ma come fine a cui tendere. Anche per non creare o acuire contrapposizioni o alimentare inutili strumentalizzazioni. Ancora troppo spesso capita che in alcuni processi per reati particolarmente odiosi, violenze sessuali e femminicidi in primis, si abdichi a questa eleganza.
La ricerca del dettaglio scabroso a tutti i costi, la scannerizzazione di abitudini e costumi della persona offesa, in qualche caso anche da parte della pubblica accusa spesso portano a poco in termini probatori. Creano situazioni di forte sofferenza in persone che sono già particolarmente provate. Si fanno convegni e seminari di formazione per educare a un lessico che sia adeguato alla delicatezza della situazione. È pur vero che trovare le parole adatte in queste situazioni non è mai facile. Il rischio di riaprire ferite, alimentare il dolore delle parti offese che già hanno il cuore lacerato dalla sofferenza è sempre in agguato.
Il dono dell’ars oratoria
Il diritto alla difesa potrebbe sembrare contrapposto al diritto alla sofferenza. Ma non è così. Basterebbe sempre non perdere di vista l’eleganza della parola, dei toni e dei comportamenti. Nelle aule di giustizia come in tutti i luoghi istituzionali e non. Bisognerebbe perseguire e coltivare il dono dell’ars oratoria. Il “parlar bene” ci può aiutare a esprimere anche i concetti più forti e pungenti senza perdere il senso etico e civico.
Rinnegare il valore dell’uso sapiente della parola ci porterebbe, o ci ha già portati, a derive degradanti per l’essere umano stesso. Derive financo pericolose. Ce lo ricordava già, oltre duemila anni fa, Marco Tullio Cicerone. Esortava gli avvocati e gli uomini pubblici in genere, al dovere del decoro, anche oratorio, inteso come un insieme di saggezza, cultura, eleganza, misura e buon gusto.
Cosa hanno detto di Lea Garofalo
Buon gusto che non si è certo sempre dimostrato durante il processo celebrato per l’omicidio di Lea Garofalo. Tra il 2011 e il 2012 le udienze si avvicendavano in modo serrato. Il corpo di Lea, testimone di giustizia scappata da una famiglia di ‘ndrangheta e poi uccisa all’ex compagno, non era ancora stato trovato. Il collaboratore di giustizia non aveva ancora “parlato” e quindi non si sapeva dove e come Lea fosse stata uccisa.
Un avvocato della difesa di uno degli imputati, in aula, disse che per quel che se ne sapeva Lea Garofalo poteva essere scappata. Poteva aver abbandonato la figlia ed essere tranquillamente in qualche posto lontano, al caldo. Sicuramente un’affermazione poco delicata. Soprattutto perché in quell’aula, protetta da un paravento per motivi di sicurezza, c’era la giovane figlia di Lea, Denise. Forse, anche in questo caso, una maggiore eleganza verbale e istituzionale nulla avrebbe tolto al sacrosanto diritto di difesa.