Gli amici del latino

a cura di GIANCARLO ROSSI

Giancarlo Rossi

le fortune di una lingua dal destino particolare

Per capire chi siano oggi gli amici del latino e poi valutare le loro ragioni, serve un brevissimo cenno sulle fortune di una lingua dal destino particolare. Fra alti e bassi, decadenze e rinascenze, ogni secolo, anche il nostro, ha assegnato una sua peculiare funzione. Ha impedito che si estinguesse. Non è irragionevole paragonare il latino -lingua codificata in un laborioso processo- a un’opera d’arte, figurativa, musicale, architettonica. Possiede infatti la potenzialità d’essere riconosciuta come espressione di significati non solo dai contemporanei, ma anche da diverse generazioni nel tempo e da culture lontane nello spazio.

Come un’opera d’arte

Ancora oggi apprezziamo la statuaria greca, le città medievali, il canto gregoriano, la pittura barocca, la musica indiana, l’artigianato giapponese. Guardiamo per esempio, per stare in campo musicale, alla nona sinfonia di Beethoven, della quale celebriamo quest’anno il secondo centenario. È stata eseguita infinite volte. Ciascun direttore d’orchestra l’ha interpretata con la propria sensibilità e secondo lo spirito del tempo. Ha esplorato le potenzialità espressive, senza tradirne l’ispirazione e la scrittura originaria.

Così dalla solennità d’un Bruno Walter alla concitazione d’un Toscanini, dalla maestosità d’un Furtwangler alla veemenza d’un Karajan, dalla lentezza d’un Beecham alla compostezza di un Baremboin ogni volta essa risuona nuova e uguale, alia et eadem, come il sole su Roma nell’inno di Orazio, continuando a parlare agli uomini di ogni tempo. Allo stesso modo la lingua latina, come un’opera d’arte, ha attraversato i millenni. Ha continuato il suo servizio a favore dell’umanità, mentre naviga nel fiume tumultuoso della storia.

Il latino dall’età di Cicerone a oggi

Il latino, qual è stato codificato dall’uso scritto, dall’elaborazione artistica e dalle riflessioni dei grammatici in quanto lingua non ha subito sostanziali variazioni dall’età di Cicerone a oggi. Questo è avvenuto nonostante l’apporto di numerosissimi scrittori. È invariata la fonetica, salvo limitati mutamenti, la grammatica, la sintassi, il lessico di base.

Si può costatare però che lo stile varia da autore ad autore. Un amante della musica distingue alle prime battute Bach da Vivaldi o Mozart da Beethoven. Un amante del latino coglie subito a orecchio la differenza stilistica tra Cesare e Cicerone, tra Apuleio ed Agostino, tra Francesco d’Assisi e Tommaso d’Aquino, tra Dante e Petrarca, tra Galileo e Newton, tra le encicliche prima di Giovanni Paolo II e le successive.

Un fenomeno sostanzialmente unitario e stabile

Questi brevi cenni puntano a chiarire come ciò che noi chiamiamo latino sia un fenomeno sostanzialmente unitario e stabile. È stato sottratto all’evoluzione tipica della gran parte delle lingue e ha attraversato la storia sostanzialmente indenne; tuttavia ogni periodo storico gli ha attribuito un senso particolare e se ne è servito da un’angolatura specifica. Infatti, lingua ufficiale dell’impero romano, conviveva con infinite varietà locali, dalle quali sarebbero poi emerse le lingue romanze. Sotto la penna degli autori si articolava su diversi registri con una stupefacente duttilità.

L’esempio di Sant’Agostino è emblematico: autore prolifico -si contano più di cento opere- e quant’altri mai vario, rètore sofisticatissimo, a seconda dell’argomento e dei destinatari, si moveva con agilità dal ciceronianesimo dei primi dialoghi didattici, destinati agli allievi, al linguaggio parlato e popolare dei Sermones, destinati alla predicazione, e costruiva nelle Confessiones una lingua personalissima, inconfondibile, inimitabile, nella quale gli stilemi classici si mescolano e compongono con le caratteristiche espressive del latino cristiano, e le strutture sintattiche tradizionali sono sottoposte a tensioni imprevedibili, che anticipano il flusso di coscienza di Joyce e Svevo. Ma riprendiamo l’argomento delle fortune del latino.

Il latino come lingua scritta

Caduto l’impero Romano d’Occidente nel quinto secolo, aumenta anno dopo anno il divario tra lingua parlata e lingua scritta. Senza il controllo di un’autorità statale centrale, ridottisi i commerci e i viaggi, ma non gli spostamenti delle popolazioni barbariche, sopravvissuta la capacità di leggere e scrivere soltanto presso ristrettissimi gruppi, si esasperano le varietà locali del parlato sino alla formazione di lingue nuove. Le chiamiamo appunto neolatine o romanze, e il latino resta lingua eminentemente scritta.

In sintesi per circa tre secoli da un lato si frammenta nell’uso orale, dall’altro si ritira nei monasteri, nelle cancellerie, nelle roccaforti della storiografia, della teologia, della filosofia, del diritto, dell’agiografia. Resta vitale mezzo di trasmissione della cultura antica e contemporanea. È strumento sostanzialmente unitario. Questo avviene pur nella varietà degli stili, nonostante gli scostamenti dalla norma classica e la contaminazione con i volgari.

La lingua dell’impero

Sotto Carlo Magno, promotore della cosiddetta Rinascita Carolingia, rifiorirono gli studi. Fu restaurato nelle scuole un modo di scrivere più vicino ai modelli classici. Il latino riassunse il suo primato di lingua dell’impero. Nei secoli successivi, mentre emergevano a dignità letteraria i volgari, conservò il suo prestigio. Oltre che “grammatica”, come diceva Dante, cioè modello ideale cui riferire ogni scrittura, fu lingua comune della letteratura, della storiografia, dei resoconti geografici, della filosofia, del diritto, della teologia, della storia, dell’astronomia, della didattica, persino della poesia, e a buon diritto delle scienze. Questo fu sino alla metà dell’Ottocento.

Sul piano strettamente linguistico e comunicativo si può dire che con i Gesuiti raggiunse presto un ammirevole equilibrio formale, a metà strada tra l’imitazione pedissequa degli Antichi e lo stile poco sorvegliato della prassi ecclesiastica. Diventò modello di chiarezza espressiva in vari rami del sapere, sino a influenzare le altre lingue. Si potrebbe sostenere che il XVIII secolo fu il canto del cigno dell’uso comunicativo del latino, per diffusione, per ampiezza di materie trattate, per condivisa sobrietà ed eleganza dello stile.

Si riduce lo spazio in ambiti specialistici

Poi, nel passaggio tra l’Illuminismo e il Romanticismo, e nell’emergere dei nazionalismi, irrompono sulla scena le lingue nazionali. Lo spazio occupato sino ad allora dal latino si restringe progressivamente in ambiti sempre più specialistici. Riguarda la teologia, la filologia e alcune discipline scientifiche. Resta lingua ufficiale della Chiesa Cattolica, oltre che lingua di formazione delle persone colte.

Cominciano allora le dispute sulla necessità di abbandonarne del tutto l’uso. L’astuzia dei filologi classici tedeschi escogitò l’idea che la struttura stessa della lingua fosse irrinunciabile esercizio mentale. Se si voleva formare la futura classe dirigente era una sorta di palestra dello spirito. Forse erano preoccupati di perdere il lavoro. Proposero così di sostituire lo studio della lingua in sé la sua pratica, con lo studio astratto della grammatica.

Il latino forma la mente

Di qui nasce la favola, tuttora ricantata da alcuni difensori, che il latino formi la mente. In verità lo studio in sé forma la mente, assieme all’esercizio assiduo della materia studiata. La predicata virtù formativa non è privilegio della lingua latina, se non in quell’aspetto visto più sopra della sospensione del giudizio. 

Dopo la seconda guerra mondiale, per varie ragioni che qui non possono analizzarsi adeguatamente, cominciarono le prime crociate contro l’insegnamento del latino, che salvo pattuglie isolate e politicamente traversali di difensori, la Destra considerava ostacolo alla modernità, la Sinistra strumento di selezione sociale, il Centro ingombrante memoria del sacro. La crociata culmina con l’abolizione dalla scuola media e col bando dalla liturgia cattolica. Si rinnova periodicamente da oltre mezzo secolo, ogni qual volta un ministro, bramoso di emulare Gentile, mette mano alla riforma della scuola pubblica. Al di là dell’appartenenza partitica, considera suo primario dovere contrarre o eliminare l’insegnamento obbligatorio del latino.

Chi sono gli amici del latino

Sono state condotte crociate, come si diceva, senza vere argomentazioni, ma con un’enfasi acrimoniosa, degna di ben altri obiettivi. Sono state alimentate dalla propaganda di precise centrali ideologiche e sostenute dalla servizievole comunicazione di massa. Chi sono oggi gli amici del latino?

Semplicemente sono persone di buon senso, che hanno avuto il privilegio di studiarlo. Hanno misurato i vantaggi che ne hanno tratto. Sono persone libere di pensiero e dotate di capacità critica, anche perché il latino le ha formate alla libertà e alla riflessione; persone infastidite dai luoghi comuni e dalle idee stereotipate, che dilagano dai mezzi di comunicazione di massa e permeano le coscienze; persone seriamente preoccupate dallo “sdoganamento” dell’ignoranza, dalla denigrazione della cultura, dal prevalere nella scala dei valori dell’effimero apparire rispetto al solido essere. Certamente sono persone ragionevoli e non faziose né interessate in proprio.

Vedo d’essermi dilungato sugli avversari delle lingue e degli studi classici, accomunando anche posizioni fra loro diverse. Poco spazio sembro dedicare agli amici del latino. Vi invito a navigare in rete e a constatare voi stessi quanti nuclei di resistenza, per così dire, si siano in tutto il mondo formati e stretti in un mutuo patto di solidarietà.

Troverete una fioritura qualche anno fa impensabile di gruppi spontanei. Ciascuno di questi, pur a diversi livelli di preparazione culturale, tende al medesimo fine. Vuole dimostrare nella pratica che vale la pena imparare il latino. Per impararlo il miglior metodo è considerarlo come una lingua viva, pari alle altre, non come un cadavere da sezionare sul tavolo dell’alta filologia.

E vedremo anche le ragioni di noi amici del latino.