EUROPA

Il voto che (comunque) cambia l’Europa

Giacomo D’Arrigo dottorando università di messina

Solo quindici anni fa le elezioni del Parlamento europeo erano di “scarso interesse”: un appuntamento più per addetti ai lavori che passava nel disinteresse generale in cui si votava comunque “per” l’Europa scegliendo al più da chi farsi rappresentare, un sondaggio interno per leader e partiti. Oggi il voto “per” l’Europa non è più così scontato e l’appuntamento non è più una semplice routine con soli riflessi di politica nazionale ma rappresenta forse il momento elettorale più importante del 2024 tra gli oltre 70 previsti nel mondo.

I motivi di questa centralità sono diversi, alcuni esterni altri interni al perimetro dei 27 Paesi UE. Proviamo a leggerli in tre macro aggregati tematici: contesto globale; contesto continentale; contesto politico e scenari possibili.

Il contesto globale

Partendo dal Democracy index – realizzato annualmente dal 2006 da The Economist – che misura diffusione e forza della Democrazia nel mondo, per quanto qua di nostro interesse si notano due elementi: 1) nel pianeta la popolazione governata da democrazie “piene” o “imperfette” è oggi minoritaria con il 44,8% a fronte del 54,6% dei regimi “ibridi” e “autoritari”; 2) il Vecchio Continente è il solo in cui tutti i suoi Paesi sono democrazie e il voto all’Europarlamento assume quindi valenza utile a capire se stato di salute ed apprezzamento per l’UE sono confermati e se il risultato elettorale darà più o meno forza ai partiti che si identificano nei principi democratici della liberal democrazia o a quelli che guardano verso regimi ibridi e autoritari.

Nel 2024, dopo l’India con 1 miliardo e 400 milioni di persone, l’Europa è la parte più popolosa del mondo che vota con oltre 448 milioni di cittadini (ben sopra i 340 milioni degli Stati Uniti) e l’esito europeo non è meno importante di quello che accadrà oltre oceano. Entrambi infatti sono indicatori dello stato di salute delle democrazie proprio nei luoghi (UE e USA) dove queste sono oggi più diffuse ma con tre limiti significativi che sembrano comunque indebolire i vincitori: sono sempre meno le persone che scelgono di partecipare al voto; i processi decisionali sono sempre più macchinosi; i tempi di realizzazione delle decisioni non sono immediati.

Il contesto continentale

Guardando dentro il contesto dell’Unione, queste elezioni legislative europee sono per il Continente una somma di “prime volte”: la prima volta in cui nel parlamento di Strasburgo non siederanno i rappresentanti inglesi a causa della brexit che ha messo fuori dall’UE il Regno Unito. Non è cosa da poco.

Da un lato si tratta di un elemento di debolezza per l’Europa considerando che ha perso un grande Paese (circa 70 milioni di abitanti, componente del G7 e del consiglio di sicurezza ONU e con uno “sguardo imperiale” sul mondo).

Dall’altro invece di un elemento di coesione dell’Unione valutando che nel passato su molte scelte e politiche il freno degli inglesi è stato spesso determinante per rallentare o cambiare linea evitando che l’Unione si sviluppasse nella direzione di maggiore integrazione.

È anche la prima volta che l’Europa va al voto con la guerra che confina con quattro dei suoi Stati (Polonia, Romania, Slovacchia, Ungheria). Non una scaramuccia sui limes tra nazioni ma l’aggressione russa all’Ucraina rappresenta un conflitto sulla porta dell’istituzione Europa, che ha come protagonista/assalitore una delle potenze atomiche mondiali. È inoltre la prima volta al voto dopo la più rilevante iniziativa economica e di riforme messa in campo dall’UE che ha toccato tutti gli Stati membri: il Next Generation UE.

A due anni dalla sua attuazione (circa metà del percorso che termina nel dicembre del 2026) i cittadini europei voteranno anche alla luce di quanto fatto (o non fatto) e si misurerà così soprattutto il gradimento rispetto alle novità che questo strumento ha introdotto e che hanno cambiato – alcune in modo evidente, altre meno – rilevanti meccanismi di funzionamento dell’UE tra cui: la centralizzazione a livello europeo, con un maggiore ruolo svolto dalla Commissione Europea; i meccanismi che hanno implementato condizionalità che bloccano/ritardano i fondi; alcuni vincoli significativi per gli Stati come il freno di emergenza ed il reversal e l’incidenza sulle normative nazionali.

Da ultimo infine, si vota sapendo che la legislatura che inizia avrà due novità con cui fare i conti: il nuovo Patto di Stabilità e Crescita (entrata in vigore prevista a giugno 2024); i rapporti di Mario Draghi ed Enrico Letta rispettivamente sulla competitività della UE e sul futuro del mercato unico che condizioneranno non poco il programma della prossima legislatura. Un complesso di prime volte mai accadute e mai incrociate tutte insieme che con spinte e motivazioni diverse incideranno sul voto. Per la prima volta.

Sempre guardando al contesto continentale, il voto inoltre cade in un momento in cui l’Unione, pur in uno stallo di funzionalità dovuto a meccanismi decisionali ormai superati dalla realtà in cui agisce, ha riaffermato il suo ruolo con un profilo definito. Dopo tempo, ha infatti ritrovato se stessa in una prospettiva di futuro grazie – per dirla con l’idea di sviluppo teorizzata da Jean Monnet – a una crisi, in questo caso quella pandemica del Covid-19 ed in parte anche a quelle dovute a guerra ed energia.

Tra mille difficoltà e limiti, l’UE ha saputo rileggere i motivi fondanti della sua nascita e trovare soluzioni e risorse necessarie per affrontare in modo condiviso le situazioni emergenziali. Oggi quindi l’Unione come realtà politica, istituzionale e valoriale arriva all’appuntamento elettorale del 9 giugno in una forma migliore di quella di inizio legislatura quando disaffezione, critiche e non decisione ne caratterizzavano il ritratto. Andando ai fondamentali, in particolare si possono richiamare due elementi che ci aiutano a leggere questa condizione di (ritrovata) robustezza: il ruolo svolto dall’UE per affermare i principi dello stato di diritto; la sua capacità di incrociare macro temi del prossimo futuro.

Rispetto alla difesa della Democrazia, affermazione dello stato di diritto e dei diritti fondamentali, vengono in evidenza quantità e la qualità degli atti: dal 1987 al 2023 la Commissione Europea ha aperto 23.846 procedure d’infrazione (1.724 risultano ancora in corso). L’Unione Europea, nata come Unione monetaria nella realtà non ha mai sanzionato nessun Paese per aver violato le regole in materia di bilanci pubblici, mentre sono molti gli Stati sanzionati per il mancato rispetto di direttive relative alla protezione dell’ambiente e della natura (inquinamento, gestione dei rifiuti urbani, rifiuti pericolosi, biodiversità), ai diritti fondamentale delle persone, al divieto di discriminazione, alle pari opportunità, alla salute e sicurezza alimentare, alla tutela dei minori, all’integrità del mercato unico.

Una attività giuridica e di affermazione di normativa e politiche europee, ma anche pedagogica e di formazione/indicazione rispetto al tipo di realtà che si è voluta costruire. Una attività tesa in generale all’affermazione del diritto europeo e della centralità dello stato di diritto che, per la cronaca statistica che ci riguarda, al 2023 vede l’Italia tra i Paesi con il maggior numero dei casi aperti presso la Corte di Giustizia europea, con una percentuale pari quasi al 10% sul totale di ricorsi di tutti i Paesi europei.

Il tema dell’affermazione dello stato di diritto ha visto negli ultimi anni una importanza crescente in particolare per lo scontro tra l’Unione e due Paesi (Polonia e Ungheria) che hanno in più contesti e a più riprese provato ad affermare la prevalenza della legge nazionale sul diritto europeo e spesso in ambiti che toccano proprio la garanzia del diritto, la terzietà dei giudici, la tutela delle minoranze, la funzionalità delle istituzioni. Vicende nelle quali appunto l’UE ha ricoperto il ruolo di difesa di valori, principi, istituzioni e cittadini affermando con forza (l’emissione di sentenze) o con condizionamento (il blocco di risorse) il suo punto di vista.

L’ultima puntata di questa saga riguarda la procedura di infrazione contro la legge del governo ungherese sulla difesa della sovranitànazionale del 12 dicembre 2023 che incarica il cosiddetto Ufficio per la difesa della sovranità, di indagare su attività specifiche svolte nell’interesse di un altro Stato o organismo, organizzazione o una persona fisica stranieri, qualora possano violare o compromettere la sovranità dell’Ungheria, e sulle organizzazioni le cui attività che utilizzano finanziamenti esteri possono influenzare l’esito delle elezioni.

Secondo la Commissione, la legge viola diverse disposizioni del diritto primario e derivato dell’Ue, tra cui i valori democratici, il principio della democrazia e i diritti elettorali dei cittadini, diversi diritti fondamentali sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali (rispetto della vita privata e familiare, protezione dei dati personali, libertà di espressione e di informazione, libertà di associazione, diritti elettorali, diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale, privilegio contro l’autoincriminazione e segreto professionale), e diverse norme applicabili al mercato interno. Al momento in cui si va in stampa, questa come altre procedure sono aperte ma l’indirizzo generale che si è andato affermando è proprio quello di tutelare lo stato di diritto in tutta l’Unione Europea.

Riguardo invece alla capacità dimostrata dalle istituzioni continentali di incrociare macro temi del prossimo futuro, si pensi alle recenti scelte prese a Bruxelles rispetto all’intelligenza artificiale ed alla difesa comune europea. Nel primo caso, in linea con altri provvedimenti del settore ICT che sono diventati parametri a livello mondiale (su tutti il Regolamento UE GPRS di tutela della privacy) è facile notare come proprio l’Europa abbia normato per prima – con l’obiettivo di essere anche in questo caso un riferimento normativo globale – la gestione della nuova frontiera ormai alle porte dell’intelligenza artificiale.

L’AI Act è infatti la legge europea sull’IA prima al mondo in materia. Il Regolamento, mira a garantire che i diritti fondamentali, la democrazia, lo stato di diritto e la sostenibilità ambientale siano protetti dall’IA ad alto rischio, promuovendo al contempo l’innovazione nel settore. La difesa comune europea non è invece qualcosa di formalizzato ma la legislatura che si apre sarà quella in cui il dibattito si sposterà dai quotidiani alle stanze delle decisioni politiche e la consapevolezza con cui molti protagonisti e vertici di istituzioni sembrano arrivarci, da la cifra della direzione che dentro l’UE sembra maturare per un ruolo nuovo in un contesto dove si muovono da tempo soggetti molto più strutturati.

Il contesto politico

Gli ultimi quattro importanti appuntamenti elettorali, nel conteggio generale, hanno dato ragione all’Europa e ai suoi sostenitori premiando partiti, movimenti e governi apertamente pro Bruxelles. Spagna, Polonia, Olanda e Portogallo sono i casi a cui fare riferimento.

Nel 2023 in Spagna (a luglio) e Polonia (a ottobre) i risultati delle elezioni legislative hanno portato ai rispettivi governi leader e coalizioni apertamente pro UE. La dinamica politico/istituzionale è stata simile, con i due principali partiti conservatori (PPE e PiS) che sono arrivati primi per numero di voti ma con le coalizioni progressiste che in entrambi i casi hanno ottenuto la maggioranza dei seggi nei due Parlamenti garantendo a Pedro Sanchez e Donald Tusk – leader dei partiti arrivati secondi – di guadagnare la guida di Spagna e Polonia.

Altra coincidenza di interesse è data dal fatto che i due movimenti apertamente antieuropei (Vox e Confederazione Libertà e Indipendenza) dati in forte crescita nei sondaggi, hanno invece avuto un risultato molto al di sotto delle aspettative.

Nei Paesi Bassi, a novembre sempre del 2023, hanno vinto gli antieuropei del Partito per la Libertà guidato da Geert Wilders ma al momento in cui si scrive e dopo quattro mesi dal voto, non sono ancora al governo del Paese. I negoziati per la formazione di un governo di coalizione guidato dal leader di estrema destra sono infatti falliti e l’ipotesi che Wilders diventi premier è tramontata. L’idea di un governo apertamente ostile a istituzioni, politiche e linea europea, ha sollevato più di un dubbio da parte dei potenziali alleati e nella coalizione prende corpo l’idea di un governo di tecnici di area.

Situazione simile in Portogallo al voto nel marzo del 2024, con un forte risultato di Chega, forza antieuropea e populista che è ha ottenuto una importante risultato ma in un contesto in cui con il sostanziale pareggio delle prime due forze (Alleanza Democratica di centrodestra e Partito Socialista di centrosinistra) sarà difficile formare un governo con un profilo ostile a Bruxelles.

Insomma nei quattro Paesi (diversi per collocazione geografica, dimensione, problemi e percorso dentro l’UE) che sono andati al voto nei mesi precedenti alle europee, l’Unione ha dimostrato una affermazione nei due più grandi e una forza di resistenza non da poco nei due più piccoli obbligando partiti e movimenti antieuropei a tarare le loro posizioni per accedere ai governi.

Stando ai sondaggi attuali e a queste ultime vicende elettorali, si possono provare quindi alcune ipotesi sul futuro, in un voto che segna comunque una certezza. Cambia il contesto nell’UE con la chiusura di una fase e l’apertura di una pagina nuova della dimensione europea.

Guardando a come sarà il prossimo europarlamento si possono fissare alcuni punti fermi e piste di ipotesi. Innanzitutto l’ordine di arrivo (o di forza) dei diversi gruppi. Non sembra lontano dalla realtà dire che Partito Popolare Europeo (PPE) e Partito Socialista Europeo (PSE) saranno, in quest’ordine, i primi due per numero di parlamentari eletti, mentre un secondo blocco sarà quello che vede altri tre gruppi – qui non in ordine considerando le distanze ravvicinate tra loro – e cioè: Identità e Democrazia (in Italia aderisce la Lega), Renew Europe (centristi capitanati dal Presidente francese Emanuel Macron), Conservatori e Riformisti Europei (FDI ne è il partito di riferimento e leader) che sembrano avere una netta avanzata.

Vi sono poi altri due elementi di (probabile!) certezza. Il PPE esprimerà la leadership della Commissione Europea mentre il PSE ha un maggiore carnet di nomi più strutturati per diverse istituzioni e ruoli. La conferma dell’accordo tra queste due realtà determinerà non solo l’assetto della prossima legislatura ma probabilmente anche il disegno futuro dell’Unione. Proviamo ad accennare il dettaglio delle principali forze.

Il PPE è la forza più importante sia nel Parlamento di Strasburgo e sia nei singoli Paesi membri. Ha dimostrato – sinora – anche una forza politica interna (con la designazione al ruolo di un candidato unico per il ruolo di Spitzenkandidat seppure con distinguo) ed esterna (con capacità di attrarre nella propria orbita di governo anche gruppi oggi non nella coalizione europea, vedi il rapporto con la Premier Giorgia Meloni). Ursula von der Leyen è stata indicata a febbraio come unica candidata alla nomination di front runner del Partito e nessuno si è proposto come rivale alla guida da capo lista della famiglia conservatrice.

È una prima volta anche questa considerando che fino a ora, i grandi elettori del PPE avevano sempre potuto scegliere. Nel 2019, il candidato potenziale Manfred Weber aveva affrontato il finlandese Alexander Stubb, mentre nel 2014 il lussemburghese Jean-Claude Juncker aveva fronteggiato il francese Michel Barnier. Da notare che von der Leyen non sarà presente su alcuna scheda elettorale. L’attuale presidente della Commissione – come Juncker nel 2014 – non si candiderà ma sarà solo candidato virtuale.

C’è da dire che come il voto dei delegati ha dimostrato, non vi è stata piena unanimità su questa scelta: su 499 votanti, 400 a favore, 89 contrari (più dei soli 23 componenti della delegazione francese che aveva sulle spalle la contrarietà manifesta per questa scelta del Presidente Macron) e 10 non validi. Però avevano diritto di voto per l’elezione del candidato leader del PPE 737 degli 801 delegati e per votare si sono registrati in 591 ma alla fine si sono espressi solo in 499.

Uno scarto di 238 delegati che ha creato imbarazzo nel partito. Anche il risultato finale non è un plebiscito. Il 18% non ha sostenuto la von der Leyen. Già nel 2019 proprio alla attuale Presidente sono mancati quasi 70 voti del PPE e ha ottenuto una maggioranza di 9 voti solo grazie ai voti degli eurodeputati sovranisti.

Voci di dissenso alla sua conferma si sono già fatte sentire più o meno apertamente. Il partito francese Les Républicains e il partito sloveno SDS non le daranno il loro voto, cosi come l’ex premier italiano Matteo Renzi, l’attuale commissario francese al mercato interno Thierry Breton e i due attuali primi ministri di Spagna, Sanchez e Irlanda, Varadkar hanno espresso apertamente contrarietà. Al netto di queste vicende interne, tutto il partito appare comunque attestato su una posizione condivisa: la linea rossa di non alleanza con i partiti che interloquiscono con la Russia di Vladimir Putin e che non difendono Democrazia e stato di diritto.

Il PSE è il second best della competizione e arriva alla corsa di giugno con alcuni elementi di certezza: una capacità di “resistenza” che ha evitato “lo scenario francese” del partito; una compattezza reale e una pluralità di protagonisti di primo livello. Nicolas Schmit, Commissario lussemburghese al lavoro, è stato scelto come candidato di punta e il gruppo dei Socialisti e Democratici non dovrebbe sfigurare attestandosi su un risultato simile al livello parlamentare di oggi (circa 140 deputati) con una distanza dal gruppo del PPE che dovrebbe essere invariata: una quarantina di deputati in più per i popolari.

I socialisti hanno già vissuto la loro grande crisi a cavallo del nuovo millennio, il momento di massima forza numerica e politica con le premiership di Tony Blair (UK), Gerhard Schroeder (Germania), Massimo D’Alema (Italia) e Lionel Jospin (Francia) e con una posizione di forza sia al Consiglio Europeo come al Parlamento europeo.

Poi il combinato disposto di una serie di vicende come il riflesso anti globalizzazione e le difficoltà delle fasce più deboli, gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, la guerra in Iraq, l’allargamento, il fallimento del trattato costituzionale europeista, la crisi finanziaria e del debito sovrano e la crisi migratoria hanno portato a una costante erosione del voto per i partiti di centrosinistra

Nel 2019 l’emorragia sembra essersi arrestata stabilizzando i consensi che dovrebbero portare il PSE a essere, salvo sorprese, la seconda famiglia politica europea del 2024 e in virtù di questi numeri secondo azionista della maggioranza della prossima legislatura. In un contesto che ha visto molti leader come il Commissario Paolo Gentiloni o anche il portoghese Antonio Costa e la danese Mette Frederiksen e poi le riserve di ex premier come Enrico Letta o la finlandese Sanna Marin declinare un ruolo attivo nella competizione. 

Ciò che infatti sembra mancare al PSE non sono i nomi, ma la capacità di far emergere chiari obiettivi e una strategia definita. Il PPE si divide spesso e su molto nelle riunioni a porte chiuse, ma quando decide cosa fare si muove come un sol uomo, approccio questo che non sempre i S&D hanno messo in campo. Il Parlamento europeo nella prossima legislatura sarà l’unica istituzione nella quale il PSE può far pesare i suoi numeri per il governo dell’UE. Dentro il Consiglio europeo ci sono solo quattro membri del PSE: il tedesco Olaf Scholz, lo spagnolo Pedro Sánchez, la danese Mette Frederiksen, il maltese Robert Abela e lo slovacco Robert Fico (che al momento è sospeso).

Che Ursula von der Leyen venga confermata o meno presidente della Commissione, non sarà comunque in questa parte dello scacchiere che si determinerà e salvo colpi di scena ci saranno al massimo quattro o cinque i commissari socialisti. Ma appunto nel Parlamento europeo con circa 140 deputati il gruppo dei S&D ha molti margini per far pesare il voto del secondo gruppo parlamentare. Il vero rischio politico concreto per il PSE sarebbe quello di accettare passivamente il programma del PPE (vedi la retromarcia sul Green deal) e la collaborazione di von der Leyen con partiti sovranisti.

Conclusioni

Più o meno Europa dal voto del 9 giugno non significa solo rafforzamento di istituzioni e di vincoli di bilancio o una legislazione più omogenea, ma anche aspetti pratici che spesso sfuggono ai cittadini. Proprio nel febbraio del 2024 il Parlamento Europeo ha realizzato uno studio che ha dato una stima di questi aspetti pratici: una risposta collettiva europea alle sfide globali (cambiamenti climatici, conflitti geopolitici, erosione dei principi democratici e disuguaglianze) nei prossimi dieci anni potrebbe generare benefici per un valore fino a 3.000 miliardi di euro all’anno per l’intera UE.

Una cifra che rappresenta circa il 18% del Pil dell’Unione equivalente a 6.700 euro l’anno per cittadino. Lo studio indica anche le cifre per settori: 1.400 euro a persona per mercato unico e trasporti; 980 euro per la trasformazione verde; 860 euro per la trasformazione digitale; 750 euro per occupazione e coesione; 720 euro per l’unione economica e monetaria; 630 euro per parità di genere e diritti civili; 460 euro per la salute; 380 euro per l’azione esterna e la difesa; 340 euro per giustizia e stato di diritto; 180 euro per ricerca, istruzione e cultura. Cifre che confermano la “convenienza” dell’UE e l’importanza del voto del 9 giugno 2024 ben oltre le grandi sfide istituzionali o geopolitiche.

Non si tratta di europeismo di maniera, ma di voler ancora una volta partecipare alla migliore scommessa collettiva mai messa in campo, positiva perché non affidata al caso ma alla cifra di impegno a cui richiama ciascuno.


Pubblicato su Rivista Europa Avenir 23.05.2024