INTORNO A NOI

Lente d’ingrandimento su Donald Trump

SAMUELE ARSILLO • LAUREATO IN SCIENZE DELLA COMUNICAZIONE E SPECIALIZZANDO IN SCIENZE POLITICHE E DI GOVERNO

Negli Stati Uniti il 5 novembre si terranno le elezioni presidenziali. È un momento che si rinnova ogni quattro anni e che vede i cittadini americani intensamente coinvolti nel manifestare, esprimendo la loro preferenza, desideri e aspirazioni presenti e future. L’analisi delle parole e/o delle immagini di cui si avvalgono e si sono avvalsi i candidati alle presidenziali è un aspetto non secondario. Serve per comprendere fino in fondo le strategie comunicative e argomentative adottate per divenire Presidente degli Stati Uniti d’America.

La comunicazione politica nell’era digitale deve essere studiata attentamente affinché lo svolgimento della campagna elettorale possa rivelarsi vincente. E per permettere ciò, tanto la presenza di finanziatori piccoli, medi o grandi, quanto le abilità affabulatorie del politico costituiscono due degli aspetti più importanti. Questi sicuramente a Donald J. Trump non mancano.

È una figura divisiva e controversa. Resta confacente a tutt’un modo di rapportarsi con l’elettorato e di comunicare la propria opinione tipico del XXI secolo. A oggi gode di un ampio consenso tra le fila degli elettori repubblicani. Questo significa che il suo modus operandi, il suo linguaggio e la sua baldanza, sia apparentemente che de facto, funzionano. Non sono il frutto di scelte insensate, bensì di un processo logico o a-logico ben studiato. Riflette per estensione una specifica visione del mondo appartenente a una fetta dell’elettorato americano.

Il consenso agli eccessi della comunicazione di Trump

La spettacolarizzazione, il capitalismo e, per certi ranghi più radicali, l’unilateralismo (ossia gli Stati Uniti sopra a tutto e a tutti) la fanno da padroni. Nelle fasce più “estremiste” il razzismo e il sessismo non sono mai scomparsi. I più conservatori non hanno mai digerito la vittoria di un candidato afroamericano nel 2008. Non accetterebbero neanche la vittoria di Kamala Harris il 5 novembre, seconda donna candidata alle presidenziali, per di più di colore. In questo contesto Donald J. Trump trova celatamente la forma più alta, pura e meschina del proprio consenso.

Non è un caso che negli anni addietro abbia sostenuto in maniera continuativa teorie cospirative come il birtherism e il QAnon. Si è lasciato andare a commenti riprovevoli sulle donne. Ha detto “sono da prendere per la fi**” oppure le ha definte “maiali grassi”. Per non farsi mancare nulla, non è un caso che non sia mai stato in grado di svincolarsi dalle lusinghe di cui godeva presso il Ku Klux Klan. Il gruppo estremista fece ufficialmente il suo endorsement al tycoon nella corsa contro Hillary Clinton il 2 novembre del 2016. Ecco, per farla breve, il principale cavallo di battaglia di Donald J. Trump è tutto questo.

Trump e i nemici del popolo americano

Ma come è stato detto in precedenza, Donald J. Trump adopera scientemente parole e immaginario, creato attraverso queste. Su temi come l’immigrazione, l’economia, la politica estera il candidato repubblicano ha fatto emergere in più occasioni un tipo di retorica che potremmo definire menzognera o, per l’esattezza, la sua verità. Giudica chi cerca di confutarla “Nemici del popolo americano”. Lui stesso scrisse così in un tweet del 18 febbraio 2017. “The FAKE NEWS media […] is not my enemy, it is the enemy of the American People!”.

Così, per esempio, ebbe a definire i messicani “stupratori”. “[…] They’re rapists”, discorso del 16 giugno 2015. Più recentemente, ha sostenuto la teoria secondo la quale a Springfield gli immigrati stiano mangiando i cani e i gatti dei cittadini locali. Ha condiviso una sua fotografia su Instagram immortalato tra cani, gatti e oche. Sull’economia asserì che il COVID-19 fosse un virus appositamente creato dai cinesi volto a danneggiare i mercati statunitensi. “[…] Chinese Virus”, tweet del 15 marzo 2020.

Trump e la neutralità degli Stati Uniti

Ha inasprito in modo estremo quel clima di protezionismo e di guerra doganale promosso durante il suo primo mandato. In ultimo, in tema di politica estera è stato il primo presidente degli Stati Uniti d’America a riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele. Ha ribaltato una linea di neutralità perseguita da diversi anni da parte dei presidenti precedenti.

Questo è, in poche righe, il modo di operare di Donald J. Trump: alternativo. Ma la verità è un’altra. Nel secolo corrente negli Stati Uniti l’economia, la finanza e il potere delle armi sembrano contare più della politica. Il grosso complesso lobbistico di cui sovente si parla è ormai talmente radicato nelle decisioni prese nei palazzi di governo che la politica ne è rimasta totalmente paralizzata. Questo è quanto avvenuto sotto la presidenza Biden.

Quest’ultimo punto è molte volte la narrazione forte e vincente propinata da Donald Trump. Attecchisce soprattutto su quelle frange di elettori che lo difendono nonostante i fatti del 6 gennaio 2021. Vedono nei contenziosi bellici aperti in Medio Oriente e in Europa orientale dei meri diversivi. L’amministrazione Biden prima e quella di Harris poi vogliono celare agli occhi dell’opinione pubblica statunitense e globale la gravosa situazione di declino politico. È un’ipotesi, tra l’altro, suffragata da diversi giornalisti e politologi.

Per concludere, alla luce di quanto detto, il 5 novembre vedremo cosa accadrà. È un risultato che influenzerà tanto gli americani quanto noi europei. Il tutto avverrà con un occhio puntato anche sulle guerre in corso. A oggi, non sembrano affatto potersi chiudere con un negoziato tra gli Stati coinvolti.