Media e guerra dipendenza reciproca
INTORNO A NOI

Media e guerra, dipendenza reciproca

GIORGIO TADDEI STUDENTE DI SCIENZE SOCIALI ALL’UNIVERSITÀ STATALE DI MILANO

Il primo vero corrispondente di guerra nella storia del giornalismo è stato William H. Russel, giornalista del Times di Londra. Russel, mentre seguiva l’esercito britannico durante la Guerra di Crimea nel 1854, rivelò per la prima volta all’opinione pubblica che: “la guerra non è che sangue, sudore e merda”. 

Questo fu un cambiamento epocale, in precedenza la narrazione dei conflitti era prodotta dai racconti falsati e edulcorati degli ufficiali che millantavano eroiche imprese.
Da allora, il legame tra i media di massa e gli eventi bellici si è contraddistinto da una forma molto forte di dipendenza reciproca.
L’evoluzione di tale stretto rapporto ha riguardato le guerre del sanguinoso ventesimo secolo. Si è passati da una Prima Guerra Mondiale giornalistica a una guerra più radiofonica durante il secondo conflitto mondiale. La copertura televisiva “tradizionale” del dramma in Vietnam è stata superata dall’avvento delle televisioni satellitari a seguito della coalizione occidentale impegnata nella prima guerra del Golfo. La seconda guerra del Golfo invece è stata il primo conflitto in cui Internet ha svolto un ruolo importante dal punto di vista mediatico.
È facilmente notabile come tutti questi scontri si siano svolti in un contesto tecnologico in parte cambiato e certamente evoluto rispetto al precedente.
In generale si può affermare che ogni guerra attira e funge da catalizzatore delle tecnologie a lei contemporanee.

Evoluzione internet e social media

L’avvento e l’evoluzione di internet e dei social media non sono altro che un ulteriore cambiamento epocale dal punto di vista della comunicazione dei conflitti.
Questi nuovi media sono sempre più coinvolti nella documentazione di ciò che accade nel mondo.
Ormai il modello tradizionale giornalistico di comunicazione dal campo di battaglia sta lasciando sempre più spazio alla molteplicità di coperture social da parte dei civili coinvolti.
Si tratta dei cosiddetti “citizen camera witnesses”, il cui operato ha contribuito alla modifica della raffigurazione delle guerre nelle nostre menti.
Questa testimonianza sempre più diretta della violenza può essere uno strumento per stimolare l’opinione pubblica ad avvicinarsi a queste tematiche e spingere ad azioni risolutive.
Ma ciò potrebbe sfociare in una sovraesposizione della sofferenza con conseguente degenerazione in desensibilizzazione.
Per questo motivo, dagli anni dieci del XXI secolo, vi sono stati degli studi sociologici che indagavano sulla reazione delle persone rispetto alla pubblicazione sui social di immagini e informazioni riguardanti conflitti. È stato notato che, sebbene fosse fortemente presente la desensibilizzazione degli utenti, le testimonianze provenienti dai social e non dai media tradizionali creano maggior attenzione. Questo perché ritenute più reali e vicine a chi guardava.

La strategia comunicativa dei Talebani

La condivisione diretta di una testimonianza è dunque una potenziale fonte di potere che non può essere sottovalutata.
I Talebani che da molti anni si adoperano per la creazione di una molto efficace strategia comunicativa hanno ampiamente compreso tutto questo.
Nel 2002 l’istituzione di una commissione dedita alla comunicazione è andata di pari passo con la rimozione del divieto di pubblicazione online di video e immagini. Tutto questo con il fine di portare avanti una feroce propaganda contro i militari statunitensi impegnati in Afghanistan e di pubblicare i video delle esecuzioni dei prigionieri.
Nel 2005 hanno poi creato il proprio sito ufficiale Al Emarah (L’Emirato). In seguito, si sono iscritti a social network quali YouTube, e Twitter, su cui hanno poi attuato un’istituzionalizzazione del proprio linguaggio comunicativo.


Thomas Johnson, autore del libro Taliban Narratives The Use and Power of Stories in the Afghanistan Conflict ed esperto di Afghanistan, ha spiegato al New York times

I talebani hanno capito che la guerra si vince anche attraverso le narrazioni e le storie


E in questo momento, sconfitti e cacciati gli americani, stanno utilizzando gli stessi metodi per consolidare il proprio potere.

Media e guerra, conflitto odierno tra Ucraina e Russia

Secondo The Economist il conflitto odierno tra Ucraina e Russia è diventato «l’esempio più vivido di come i social stiano cambiando il modo in cui la guerra è raccontata, vissuta e capita, e di come questo può cambiare il corso della stessa guerra».
Quest’analisi è supportata anche dal fatto che, a oggi, circa il 75% dei cittadini ucraini usa internet. Nel 2014, quando Putin occupava la Crimea, solo il 14% degli ucraini possedeva uno smartphone, e di questi solo il 4% con l’accesso al 3G. Nel 2022 più dell’70% degli invasi possiede un telefono, con l’80% di questi con internet ad alta velocità.
Questi dati sono in linea con la tendenza globale. Oggi i social sono utilizzati da circa quattro miliardi e mezzo di individui, il doppio che nella prima metà dello scorso decennio.

L’information warrior sul campo di battaglia

In tale contesto, il ministero ucraino per la trasformazione digitale, tramite un proprio funzionario, spiega che “in questi giorni ognuno è un information warrior”. Chiunque possieda un telefono e accesso alla rete può informare sugli spostamenti del nemico, può testimoniare i crimini dei russi e rivelarne la posizione. 
Tutto questo è funzionale anche a contrastare la disinformacjia, arte di cui i russi da sempre sono maestri indiscussi.


Queste le parole di Ugo Tramballi, senior advisor dell’Ispi, quando si trovava in zone di guerra per documentarle

C’era sempre qualche collega che inventava reportage da fronti nei quali non aveva mai messo piede.
Senza le tecnologie di oggi, allora era più facile farlo e non essere scoperti.
Quei colleghi non hanno mai capito che bastava fare solo la fatica di essere testimoni, perché la realtà era sempre più sorprendente di qualsiasi esagerazione


Questo non va mai dimenticato. Come non vanno mai dimenticati tutti i giornalisti e i civili che ogni giorno, in tutto il mondo, perdono la vita documentando e subendo le tragedie della guerra.
La disinformazione e la desensibilizzazione, conseguenze della doccia mediatica portata dai social, non siano mai d’intralcio nell’analisi e nel contrasto al prodotto umano peggiore di tutti, la guerra.