Profitti gonfiati e salari
MARCO LEONARDI
L’inflazione ha gonfiato i profitti, ma non in tutti i settori né in tutte le aziende. Affinché i salari si approprino di parte di quel valore, non bastano i contratti nazionali, ci vogliono quelli decentrati che purtroppo sono sempre troppo pochi soprattutto nei servizi.
Gli ultimi mesi sono stati caratterizzati da un pil in evidente rallentamento e da un’occupazione, che notoriamente risponde con ritardo al pil, a livelli record. Da qui i molti tentativi di spiegare un puzzle (che forse non esiste) con un’unica certezza: mentre l’occupazione va bene, i salari stanno perdendo circa il 10% del loro valore reale.
Con questo articolo torniamo su un tema molto attuale: se l’inflazione ha gonfiato i profitti delle imprese, adesso che l’inflazione scende anche i profitti scenderanno? E contestualmente i salari potranno recuperare il terreno perduto.
Alcuni dati utili, differenze importanti fra settori
Innanzi tutto documentiamo l’aumento dei profitti o meglio degli “earnings per share” i profitti per azione delle aziende quotate europee (quelle italiane si comportano in maniera simile). Earnings misura il profitto netto di tutti i tipi di costi compresi gli interessi attivi e passivi, tasse e ammortamenti degli investimenti.
Fatto 100 l’indice nel gennaio 2017, è sceso fino a 90 nel corso del 2020-2021 e poi salito fino a 170 nel corso del 2023. Esistono però differenze importanti tra settori. I servizi commerciali stanno a 90 e le costruzioni sono di poco sotto i valori del 2017. L’indice delle aziende dei beni primari e della sanità sta a 130. Le utilities e l’industria stanno a 160 mentre le banche e le aziende tecnologiche e delle materie prime stanno a 180 rispetto al 100 di gennaio 2017. Le aziende dell’energia stanno a 4 volte tanto i valori del 2017.
Quali previsioni per il futuro?
Ci si attende che i profitti per azione scenderanno? L’indice di previsione (forward) a 12 mesi dice che un po’ si scenderà a 155. Onestamente il forward negli anni scorsi non è stato molto accurato ma il punto è che i prezzi delle imprese molto raramente scendono nel tempo. Una volta che le imprese sono riuscite a trasferire l’aumento dei costi sui prezzi finali, i prezzi al consumatore sono lì per rimanere.
Questo non significa automaticamente che i profitti rimangano per sempre più alti: infatti anche i costi sono aumentati e di solito anche i costi, una volta aumentati, non scendono più. Ma il 2021-2023 potrebbero essere tempi eccezionali perché abbiamo assistito a una fiammata di costi dell’energia rientrata rapidamente. Anche i tassi di interesse sono improvvisamente aumentati ma potrebbero altrettanto rapidamente scendere (almeno così molti sperano). I costi dell’energia e i costi del credito sono parte importante dei costi soprattutto in alcuni settori (e sono compresi in “earnings per share”) quindi una loro riduzione – a prezzi finali rigidi- apre uno spazio per un aumento dei profitti.
Aumento temporaneo e aumento permanente
Esiste una vasta letteratura sull’aumento secolare dei profitti che sostiene che l’aumento sia generalizzato sia per paese che per settore e che sia guidato da poche aziende che adottano le nuove tecnologie. Riescono a ridurre i costi e allo stesso tempo tenere i prezzi alti grazie al loro potere di mercato. C’è molta differenza tra imprese di uno stesso settore: l’aumento dei profitti medi è dovuto a poche imprese mentre la maggioranza ha livelli di profitti stabili nel tempo.
Questo cambiamento è dovuto alla maggiore concentrazione dei mercati e alla tecnologia. Nel tempo si sono creati grandi conglomerati e/o lo sviluppo delle nuove tecnologie ha reso gli investimenti di accesso a un mercato così grandi da escludere i più. Le economie di scala possono essere negli investimenti ma anche nel possesso della rete di accesso ai consumatori. Le nuove tecnologie e la globalizzazione dei mercati si rafforzano l’un altro e gli investimenti in ricerca e sviluppo, in pubblicità e in super manager sono molto più importanti di prima.
Bisogna evitare che l’aumento temporaneo dovuto all’inflazione diventi un aumento permanente dei profitti. Si pone quindi il tema del recupero dei salari affinché il costo dell’inflazione non ricada integralmente sul lavoro salariato.
I dati mostrano che i profitti sono diminuiti durante la pandemia e poi sono molto risaliti ma non in tutti i settori (e non in tutte le aziende). I salari stanno aumentando ma non quanto l’inflazione. Potranno aumentare solo con il rinnovo dei contratti nazionali (sempre colpevolmente in ritardo) e attraverso la contrattazione decentrata per l’appropriazione di parte di quei profitti al fattore lavoro.
Importanza della contrattazione decentrata
Sul rinnovo del contratto nazionale le banche hanno dato il buon esempio con un aumento salariale generoso (435 euro mensili medi) anticipato dalla decisione di una grande banca. Ma per altri settori per esempio il commercio in cui i profitti medi non sono aumentati e la differenza tra le imprese all’interno dei settori è molto grande, il contratto nazionale non può essere l’unica via.
La contrattazione decentrata è l’unico modo per recuperare spazio ai salari perché non tutte le imprese sono uguali e non tutte hanno fatto profitto. Da questo punto di vista servirebbe molta più contrattazione decentrata nei servizi. La contrattazione decentrata ha avuto uno sviluppo importante da quando nel 2016 ha ripreso vigore la detassazione dei premi di produttività, del welfare aziendale e delle forme di partecipazione dei lavoratori. Ma purtroppo le migliori pratiche e i migliori risultati restano tuttora confinati alla manifattura. La maggior prova delle relazioni industriali oggi è questa, non la lamentela su un mercato del lavoro che sta tirando grazie al pil dell’anno scorso.
Pubblicato su Il Foglio il 13.02.2024